OMELIA DI SUA SANTITA’
IL PATRIARCA ECUMENICO BARTOLOMEO
DURANTE L’INCONTRO DELLE RELIGIONI
(Firenze, 14 maggio 2006)
Eminentissimi fratelli, Vescovi Ortodossi,
Eminentissimi ed Eccellentissimi Presuli delle altre Chiese,
Sapientissimi rappresentanti delle altre religioni,
Illustrissime Autorità,
Diletti amici,
A tutti rivolgiamo un saluto cordialissimo. A tutti voi esprimiamo
il nostro amore e la nostra stima. Non ignoriamo certamente che almeno ognuna
delle tre religioni monoteistiche rivendica per se stessa l’assolutezza
della rivelazione di Dio, in modo che ogni uomo debba scegliere una soltanto
di loro, perché non è possibile che accetti, simultaneamente,
l’insegnamento anche delle tre. Tuttavia in quest’ora dialoghiamo
tra di noi, certamente, non in ambito teologico - ovvero non sul tema quale
di queste tre religioni esprime la verità di Dio - ma sul tema della
pacifica coesistenza dei fedeli di ognuna di esse nello stesso spazio sociale
con i fedeli delle altre religioni.
Come è noto, la crescente facilitazione della comunicazione dei popoli
e dell’immigrazione di grandi gruppi di popolazioni, come anche la bene
o male avanzata globalizzazione, hanno rotto i confini ideologici tra le Nazioni,
un tempo impermeabili, e i confini locali dei gruppi sociali omogenei religiosamente
e culturalmente, e hanno creato un’affluenza, come mai, di gruppi di minoranza
di alcune religioni, in società a maggioranza di altra religione. Certamente
queste situazioni esistevano sempre, ma oggi si sono moltiplicati gli immigrati
e molte volte la loro presenza dinamica provoca la necessità di affrontare
le differenze religiose, in modo che la pace sociale sia assicurata. Cerchiamo,
allora, non il proselitismo di questi gruppi, ma l’adattamento di tutti
all’idea della loro pacifica coesistenza, quel che nelle lingue europee
si chiama “tolleranza religiosa”.
Ciò significa certamente la tolleranza di ogni maggioranza nei confronti
della minoranza, ma anche viceversa, perché non sono pochi i casi che
minoranze dinamiche effettuino con fanatismo proselitismi a danno di maggioranze
di altra religione, religiosamente inerti. Ma anche quando non si fa proselitismo
con mezzi illeciti succede a volta che il modo di manifestazione delle credenze
religiose provochi reazioni sociali, a causa della ricercata differenzazione
sociale sulla base della fede religiosa, mentre la maggioranza almeno delle
società occidentale hanno accettato come modello di coesistenza pacifica
quello secondo cui le credenze religiose di ognuno con si mostrano pubblicamente
come elemento o criterio di differenzazione.
Sono noti i dissensi che sono sorti a causa della legislazione dello Stato Francese
in riferimento all’abbigliamento di ogni allievo che testimonia la propria
religione. Per dire esattamente, non si tratta dell’abbigliamento in genere,
ma dell’aggiunta a esso di qualche contrassegno simbolico che caratterizza
o testimonia la fede reliosoa di chi lo porta. Il divieto da parte della Repubblica
Francese dell’uso pubblico di questi contrassegni – tanto da parte
dei musulmani, quanto anche degli israeliti, ma anche dei cristiani - ha provocato
tante proteste da tutti i gruppi religiosi, i quali sostengono che viene offesa
la libertà religiosa dei loro membri.
Tuttavia, il divieto dell’uso di simboli religiosi nell’abbigliamento
non è stato sancito per primo dallo Stato Francese, e addirittura di
recente, ma era in vigore ed è in vigore ampiamente. In primo luogo in
tanti Stati musulmani è vietato ai cristiani di portare su di loro visibilmente
simboli cristiani, mentre in altri è vietato ai chierici delle altre
religioni di circolare con un abito che attesti la loro condizione sacerdotale
e la loro fede religiosa. Di conseguenza, la questione è più generale
e deve essere affrontata, forse nell’ambito di una regolazione contrattuale
di reciprocità.
Bisogna osservare in merito che nella maggioranza dei paesi del cosiddetto Occidente,
è impensabile l’imposizione di limitazioni alla manifestazione
delle credenze religiose di ognuno. Eccezionalmente, si permettono limitazioni
considerate necessarie per proteggere l’ordine pubblico e i buoni costumi.
Questo, d’altronde, determina la Convenzione Internazionale sui diritti
umani e le libertà fondamentali. Ma perché i termini “ordine
pubblico” e “buoni costumi” sono concetti giuridici in parte
indefiniti, il loro esatto contenuto è precisato dagli Stati interessati,
in ogni caso specifico, in modo talvolta differente. D’altronde, questa
imprecisione, che rende il termine usato “comprensivo” delle diverse
percezioni su di lui, è quella che permette l’accordo apparente
sui termini verbali, malgrado che non sia difficile da distinguere che nella
sostanza ognuno interpreta diversamente questi termini.
Ci troviamo qui, dunque, per conversare in buona fede in che modo e fino a quali
limiti possiamo, come capi religiosi, far conoscere ai responsabili capi politici
dei Paesi del mondo il nostro concenso all’allargamento dei limiti della
tolleranza religiosa, della nostra differenzazione riguardo la fede religiosa.
Nelle società occidentali è quasi ovvio che i capi politici siano
animati del tutto dallo spirito della tolleranza religiosa, e per questa ragione
anche la maggioranza degli Stati occidentali sono stati auto-definiti come “laici”,
cioè come Stati che non si mischiano nelle credenze religiose dei loro
cittadini. Esistono però altri Stati nei quali la fede religiosa e la
politica camminano insieme, e talvolta i poteri - religioso e politico - vanno
insieme o si identificano.
La domanda, dunque, in quanto noi capi religiosi abbiamo la volontà di
aumentare i limiti della nostra tolleranza nei confronti del nostro prossimo
di altra religione, riguarda principalmente quelli di noi che possano avere
voce politica o anche corresponsabilità politica nella presa di decisioni
in merito.
Noi che vi parliamo, non ci intromettiamo nella politica di nessun Paese, nè
del Paese della nostra Sede, né dei Paesi nei quali si esercita la nostra
giurisdizione religiosa. Esprimiamo semplicemente la nostra percezione religiosa
che la libertà è secondo noi preferibile ovunque a qualsivoglia
tipo di limitazioni. Per argomentare a favore di questa nostra opinione, invochiamo
gli insegnamenti della storia, secondo i quali il fanatismo religioso in passato
fu causa di guerre disumane e di sacrifici umani. Crediamo che, giudicando a
sangue freddo quegli eventi storici, tutti condanniamo gli omicidi e le catastrofi
che sono stati provocati in nome di Dio da uomini che credevano di compiacerLo
uccidendo il loro prossimo che non era d’accordo con loro. Unanimamente,
d’altronde, tutti i rappresentanti delle religioni con cui oggi dialoghiamo,
abbiamo proclamato a Bosforo che ogni crimine in nome della religione è
un crimine contro la stessa religione.
Conosciamo che la tolleranza religiosa la quale, secondo le percezioni e opinioni
occidentali, comprende automaticamente anche la possibilità di cambiamento
di religione senza sanzioni sociali o penali – a prima vista cozza con
le percezioni di alcuni capi religiosi che credono che la loro religione escluda
il cambiamento di religione ai propri fedeli, e di conseguenza può o
anche debba imporre la pena capitale contro quanti osano accettare una fede
religiosa diversa da quella che avevano sin poco tempo prima. Sicuramente, l’assolutizzazione
di questa percezione eleva una cortina di ferro tra i fedeli sotto capi religiosi
che credono ciò, e il resto del mondo. Diventa un ostacollo alla libera
comunicazione spirituale e arma i fanatici con poteri localmente illimitati
e moralmente e legalmente superanti i limiti riconosciuti dalle convenzioni
internazionali e dalle legislazioni dei Paesi occidentali.
Certamente esistono anche punti di vista più moderati, che trovano -
secondo la nostra umile opinione – un serio appoggio nelle Sacre Scritture.
E’ per esempio scritto nel Corano che la religione non si impone. L’approfondimento
di questa frase ci rivela che non è approvata l’imposizione delle
credenze religiose con la forza. Di conseguenza, nè la costrizione con
la forza di uno perchè aderisca a una certa religione, né la sua
costrizione violenta di non andarsene da una certa religione. Ma non siamo specialisti
riguardo l’insegnamento delle altre religioni e perciò aspettiamo
da chi si occupa specificamente del loro studio di analizzarci come è
questo tema secondo i loro esegeti, sia storicamente che secondo le opinioni
delle diverse scuole e tradizioni ermeneutiche.
Ma esistino anche altri temi in cui c’è una fondamentale o seria
differenza di percezioni tra le nostre religioni o le nostre società.
La schiavitù, il ruolo delle donne, la pena di morte, la mutilazione
sia penale che consuetudinaria, sono alcuni di questi. Le odierne percezioni
su di esse delle società occidentali si differenziano molto dalle prevalenti
tra alcuni seguaci di certe religioni e altri seguaci di altre religioni. Il
fatto che le severissime percezioni di alcuni religioni, con esegesi adeguate
sono state superate oggi anche da parte degli stessi loro seguaci più
moderati, pone la fondamentale domanda se i comandamenti in merito sono stati
formulati così severamente a causa delle condizione dell’epoca
in cui sono stati formulati, cioè se sia compresa nei comandamenti la
possibilità di miglioramento o del loro abbellimento quando le condizioni
lo permettono. Se per esempio la correzione e riabilitazione sociale di un ladro
può essere raggiunta con una pena più clemente, se la legge religiosa
permette di usare questa pena al posto della mutilazione? Forse se sarà
preso addirittura in considerazione che la mutilazione rende il mutilato incapace
di lavorare e così lo forza per tutta la vita all’illegalità,
forse lo scopo della pena severa è ottenuto meglio oggi con un’altra
pena più clemente? E in ogni caso, qual è l’elemento superiore,
lo scopo del decreto o la sua applicazione letterale, malgrado che ciò
si oppenga, nelle condizioni odierne, al suo scopo o non lo raggiunge.
Sin oggi durante gli incontri interreligiosi, si cercava la scoperta di quei
comuni elementi religiosi e culturali, tramite cui collegarci tra noi e su cui
basare la costruzione ricercata della nostra pacifica coesistenza nelle stesse
società. Lasciavamo in parte le basilari differenze di percezione che,
se sottolineate, avrebbero potuto rovesciare il nostro sforzo. Già abbiamo
ottenuto un importante grado di tolleranza reciproca e di accettazione reciproca,
perciò anche osiamo proppore di studiare le basilari differenze di intendimento
sulle stesse diverse percezioni sociali, affinchè vediamo in che modo
possiamo convivere pacificamente rispettando noi stessi e gli uni gli altri.
Esiste anche il modello della creazione di società chiuse, ognuna con
propri valori e percezioni, ambientate, ma non incorporate, nelle società
di accoglienza. Questo tipo porta alla creazione di “ghetti” locali,
nei quali l’entrata di idee che dominano nelle società di accoglienza
è quasi impossibile e vietata. Questo tipo di coesistenza conserva lo
spirito di classismo religioso e di separazione religiosa, e non costituisce
il modo desiderato di coesistenza pacifica. Al contrario, conserva l’idea
dello scontro sociale, cioè lo spirito di “noi e gli altri”.
Questo spirito è una miccia pronta a esplondere e provocare dolorosi
conflitti inter-sociali, soprattutto quando prevalgono elementi fanatici e fontamentalisti
tra i gruppi sociali impiantati, che non accettano le regole fondamentali della
convivenza sociale delle società di accoglienza.
Certamente, non è un lavoro facile la scoperta dei limiti e della misura
aurea tra quei propri valori sociali che hanno il diritto di conservare gli
immigrati di minoranza, e quei valori sociali del Paese di accoglienza, che
devono accettare senza sacrificare la loro coscienza religiosa. Tuttavia, la
difficioltà di soluzione di questo problema non giustifica il non occuparsene.
La vita stessa, d’altronde, conduce le cose in alcune direzioni, che i
capi devono osservare, in modo di intervenire per correggere quando constatano
che alla fine di alcune di esse si trova conflitto e massacro. Finora, l’esperienza
- come è stato registrato negli studi dei specialisti - non ci permette
previsioni molto ottimiste per la regolare e pacifica convivenza di differenti
gruppi religiosi dentro la stessa grande società. Le previsioni malaugurate
diventano più forti quando tra questi gruppi religiosi ghettizzati prevalgono
elementi fanatici, che spingono verso scontri disperati, che avvengono di solito
a danno delle clessi socialmente più deboli. Lo stesso succede anche
quando dentro le società di accoglienza si sviluppa - o a causa di certi
comportamenti delle minoranze o dalle influenze di elementi fanatici delle maggioranze
– la tendenza di xenofobia e di filetismo, che non permette la sensazione
di sicurezza sia degli uni che degli altri, riguardo la loro convivenza dentro
la stessa società. Il fanatismo, da qualsiasi lato provenga, è
da condannare perché porta in atti inaccettabili religiosamente e socialmente.
Dopo ciò, consigliamo e proponiamo in genere di evitare il fanatismo,
la purificazione degli insegnamenti religiosi da esegesi e percezioni fanatiche
e la prevalenza della calma e serenità nell’affrontare ogni problema,
provocato dal fatto della differenza di percezioni religiose degli uomini. In
questo settore esiste ampio spazio di lavoro per i teologi di tutte le religioni,
perché sfortunatamente tante percezioni fanatiche sono insegnate come
risonanza della volontà di Dio, senza però che succeda questo.
Oltre però alle evidenti percezioni fataniche, che tutti condanniamo,
esistono anche alcune percezioni che si trovano tra il fanatismo e la severità,
che ammettono di miglioramento verso la clemenza. Dio, secondo l’insegnamento
delle tre religioni monoteistiche, è pietoso e misericordioso e amico
degli uomini. E sì che in alcuni casi si mostra severo, ma ciò
non significa che noi, i capi religiosi, abbiamo il diritto di ignorare il carattere
basilare della divinità che è carattere di pietà, misericordia
e carità, e insegnare ai nostri fedeli che Dio fondamentalmente ha un
carattere duro e vendicativo. Dio, secondo le Sacre Scritture, ci chiama ad
amarLo con tutta la nostra anima e tutta la nsotra mente, e per essere degno
di amore deve essere pieno di amore verso di noi. Ciò lo comprende ogni
anima, ancor di più, lo hanno sottolineato i mistici di ogni religione,
i feriti dall’amore di dio.
Abbiamo anche in alta parte segnalato che gli spiriti più puri si introntrano
nella constatazione dell’amore, della sapienza totale e della perfezione
di Dio. Dall’epoca protocristiana – sia dalla Bibbia, accettata
comunemente da tutti, come anche nelle opere di tanti pensatori – è
stata espressa la comune constatazione di tutti questi spiriti sensibili e colti
circa la fondatezza di questa verità. Di conseguenza, le diverse esigesi
nel corso del tempo riguardo il carattere della Divinità, che servono
mire e aspirazioni umane, in nessun caso possono prevalere sulle dichiarazioni
sapienti degli uomini di Dio a proposito del fatto che Dio è pietoso,
misericordioso e amico degli uomini, e vuole di tutti gli uomini la salvezza
e il pentimento, e che anche aspetta con pazienza. Sotto questo aspetto la tolleranza
delle percezioni e scelte religiose di ognuno è dovere di tutti noi.
Dobbiamo ispirare ai fedeli di tutti le religioni la tolleranza verso i fedeli
delle altre religioni. Perciò bisogna avere sempre di vista, secondo
l’esegesi dei sacri testi di ogni religione, il caratere pietoso, misericordioso
e filàntropo di Dio, ed essere problematici in ogni caso per il modo
secondo in cui i comandamenti di Dio apparentemente duri saranno spiegati, perché
resti prevalente il Suo carattere degno di amore.